Qualche giorno fa mi trovavo intorno ad un tavolo con Matteo Seno e quelli della Prima Minga. Parlavamo della rappresentazione del tempo. Siamo partiti che per me la migliore era il cerchio e per Matteo la linea e alla fine ci siamo trovati sulla spirale, che poi guarda caso è pure il simbolo della Permacultura. E’ stata una bella chiacchierata in una bella giornata.
Ora credo di aver trovato un esempio interessante di come la spirale descriva meglio lo scorrere del tempo rispetto alla linea a cui siamo abituati e lo vorrei condividere con voi.
La prendo alla lontana, ma ci arriviamo, promesso.
Stamattina mi hanno svegliata Shira e Johnny, me li sono ritrovati entrambi alle sei sul nuovo letto di pallett. Dopo mezz’ora di coccole sotto lo sguardo truce di Ecuador, che disapprova il mio rapporto con i cani, ci siamo alzati (io, i cani e il gatto) ed è iniziata la mia giornata. Ho fatto molte pulizie, mentre gli altri piano piano si svegliavano. Dopo aver innaffiato l’orto, già che mi trovavo con la gomma in mano ho lavato la macchina, poi ho fatto un paio di lavatrici, ho piegato le cose e le ho messe nell’armadio in camera dei miei, dove, già che c’ero ho rifatto il letto e non elencherò tutto il resto perché ho pietà di voi. Nel frattempo pensavo. Prima di tutto mi stupivano alcune cose, tra cui il fatto che non era male dedicarsi a lavori pratici, direi che è quasi terapeutico. E non capivo come mai mi era sempre pesato così tanto. E mi veniva in mente metti la cera-togli la cera di Karate Kid. Che poi ho rivisto un paio di volte su qualche pullman tipo in Colombia.
Di fatto, la meditazione può passare anche per un atto ripetuto come dipingere, pulire o lavare un’auto. Eppure a me tutte queste cose pesavano da morire, una volta. E, mentre pulivo, osservavo il modo in cui si facevano le cose a casa mia. C’era un alone di noncuranza, un’abitudine a non vedere le cose, ma a concentrarsi solo su quello che si aveva deciso di fare, anche se sarebbe stato molto facile fare un pezzettino in più. Quel pezzettino che quando lo facevamo poi ci sentivamo meglio perché era tutto finalmente a posto.
Ma molte volte anche solo l’idea ci terrorizzava.
Il terribile mostro dell’alzarsi dal divano, dell’allontanarsi dallo schermo, su cui, magari stavamo facendo la trentesima partita a candy crush. Siamo abituati all’inazione, è normale alzarsi, sedersi in un autobus, sedersi in ufficio, sedersi a tavola a mangiare, risedersi in ufficio, in metro e poi in un bar a bere una birra con gli amici. O a vedere un film, di cui poi chiacchierare, rigorosamente seduti. Muoviamo la faccia e le mani, poco di più. Ti dicono di camminare 20 minuti al giorno e ti sembra tanto. Anche perché solitamente la maggior parte del tempo la passi a fare cose che non hai scelto. Per buona parte del tempo in cui fuori c’è il sole sei relegato in una realtà che non hai scelto e che spesso ti pesa. Si comincia presto, con la scuola e poi si continua con il lavoro, è normale. Quelli che vanno a scuola e non lavorano sono degli scansafatiche, dei fortunelli che odiamo un po’ o dei poveracci, secondo noi. Come i neet, di cui parlano i noiosissimi documenti dell’Unione Europea che per qualche anno mi è toccato leggere e analizzare. Oltre alla aging population, i famigerati vecchi che invecchiano senza morire, pesando sulla spesa sociale, sempre più compressa dall’austerity, i neet, ovvero coloro che né studiano né lavorano (nel sistema) sono un altro terribile flagello. Un grave problema a cui l’Europa deve trovare una soluzione.
A due anni da quell’ufficio, io sono una neet. E’ che non mi sto cercando un lavoro, sto creando uno nuovo stile di vita, che include molto apprendimento, moltissime attività e includerà anche un lavoro, ma mi ci vorrà un pochino di tempo. Dopo una specialistica in relazioni internazionali, parlando tre lingue straniere, dopo tre anni di lavoro a Bruxelles e quattordici mesi a zonzo potrei cercarmi un lavoro e mi sentirei come quei neet dei documenti di Bruxelles. Una perdente, per il semplice fatto di essere disoccupata, ansiosa di fare un colloquio con qualcuno che mi avrebbe potuto offrire un lavoro, che chissà, forse, avrebbe incluso alcune delle cose che mi piace fare, che sono molte. E tante cose che invece no, non mi piacciono, ma che avrei fatto per assicurarmi quei soldi sul conto a fine mese. E per scriverlo sul curriculum. L’ho già fatto. Molte volte, perché ero sicura di non ci fosse un’altra scelta possibile. E sono grata a tutto il mio cammino, ho imparato molto all’università, in tutte le esperienze lavorative, associative e politiche che ho fatto fin ora. Adesso, però, voglio usare quello che ho imparato per vivere come voglio io.
In questo senso, una cosa importante che ho imparato, ma di cui mi sono accorta da poco, è che la pigrizia mentale è un ostacolo grandissimo tra noi e la vita che vorremmo. Che può iniziare da cose piccole e fattibili, come avere una casa con più ordine e armonia, che sono più piacevoli per chi ci vive dentro. Eppure, non sempre riusciamo a fare quel piccolo sforzo che previene l’accumulo di problemi e conflitti. Ma ci perdiamo solo noi a non farlo.
Per cui conviene trovare modi per iniziare a farlo, insieme alle persone con cui si vive e senza troppi sforzi. Allo stesso tempo, è importante trovare un modo per abituarci tutti a fare le cose bene, se non vogliamo scannarci e mandare a monte un progetto, un’amicizia o una convivenza per una tazzina.
A volte non abbiamo voglia di fare le cose perché abbiamo già lavorato, ma a volte anche se abbiamo tutte le energie, ci pesa il fatto di doverle fare. Tipo fare il letto, che ci vogliono al massimo tre minuti. Prima dell’avvento del fantastico piumino non rifacevo quasi mai il letto. E tutto il resto. La mia stanza era un cumulo di disordine e mi vergognavo quando qualcuno vedeva entrando le mie mutande per terra. Ma non le raccoglievo prima. Mi sembrava difficilissimo.
Invece, sugli spazi comuni mi arrabbiavo quando le cose se non le facevo io non le faceva nessuno. Mi sembrava un’enorme ingiustizia, una sorta di cospirazione ordita contro di me. E spesso me la prendevo (e continuo talvolta a farlo) con i corresponsabili del disordine che non stavano pulendo insieme a me. Poco importa se fino a pochi secondi prima anch’io ero con loro sul divano. Quando io mi alzavo e loro no, nella mia testa si tramutavano in colpevoli. Appena uscivano dalla mia vista li immaginavo in un bagno pieno di bolle sorseggiando Martini, ridendo di me, Cenerentola, alle prese l’ennesimo piatto che loro avevano sporcato. Quei maledetti buzzurri. Sono sempre dei maledetti buzzurri. Non importa che i buzzurri siano fuori a spalare fango, mentre tu lavi il loro piatto rimasto. Hanno sporcato e non hanno pulito! E tu sei lì a farlo al loro posto e questo non è giusto perché tu (quasi sempre) prima di uscire a spalare il fango lavi le tazzine. Ma quando tu, che pulisci sempre la cucina hai lasciato otto maglie in salotto e il pulitore di turno (ma di turno meno frequente) ti fa notare (se osa) che è la terza volta questa settimana che raccoglie il tuo foulard giallo da dietro il divano è come una dichiarazione di guerra. Comincia una lotta di elenchi incrociati, crudeli e senza esclusione di colpi che possono comprendere calzini e mutande sporche, capelli nella doccia e altri ricordini che qualcuno inevitabilmente ha seminato dietro di lui.
Abbiamo tutti un punto debole, tutti ad un certo punto ci dimentichiamo di qualcosa, perché c’è sempre un momento in cui non siamo presenti e ci passa di mente quello che dobbiamo fare, non ci vogliamo proprio pensare, o abbiamo rimandato. Durante la guerra la memoria ancestrale dei due contendenti è totalmente indirizzata a distruggere il nemico-convivente che ha osato mettere in dubbio la nostra essenza di Cenerentole incomprese.
Io sono stata alcune Cenerentole da quando ho iniziato la mia storia di condivisioni di spazi. All’inizio ero piuttosto una Cenerentola Menefreghista. Iniziavo come Cenerentola cercando di tenere a bada il disordine, ma sommessamente, senza farmi notare troppo dagli altri. L’esito dipendeva da quante Cenerentole c’erano oltre a me, ma spesso arrivava il punto in cui sfinita mi uniformavo alla massa e mi trasformavo nella Menefreghista che finiva la serata buttando le cicche nel bicchiere di birra. Tanto l’avevano già fatto tutti e poi se andava bene si puliva tutti insieme la mattina dopo. Poi c’è stata la fase della Cenerentola inferocita, quando lavoravo mentre i miei coinquilini facevano festa e poi mi svegliavo al mattino e trovavo il post-festa: tazzine invase da resti di sigarette, bicchieri con alcol rigorosamente a metà, pure finirlo gli faceva troppa fatica.
Era chiaro che a fine serata non c’erano più Cenerentole, ma solo menefreghisti in festa. Pavimento appiccicoso, lavandino inagibile, gas, non pervenuto. La Cenerentola Inferocita era caratterizzata da occhi iniettati di sangue, spugna nella mano destra e cellulare nella mano sinistra. Il mio fidanzato dell’epoca si chiama Marco e può testimoniare le lunghe chiamate mattutine in cui sfogavo la rabbia per l’ingiustizia suprema alla quale ero sottoposta. Il problema è che di solito i miei interlocutori sulla situazione non erano gli artefici del danno, che continuavano indisturbati, salvo qualche sbotto estemporaneo e inutile, vincevano i menefreghisti, fino a quando non uscivano di scena per altri motivi. A Bruxelles, mi sono trasformata in Mary Poppins, che pulisce e cerca d’incoraggiare gli altri a farlo, magari cantando. Per fortuna gli altri erano più grandi e più responsabili. Comunque Mary Poppins funziona! A parte alcuni casi patologici, la situazione era armoniosa e collaborativa. Ognuno di noi aveva i suoi punti di forza e i suoi difetti, che gli altri arginavano con amore. Soprattutto se eravamo amici, perché le cose agli amici è più facile dirle che al perfetto estraneo che ha risposto all’annuncio. E se l’estraneo diventa amico, allora è fatta (quando non si sfasciano le amicizie, perché si smette di parlare, poi ci si parla solo per sbottare e si finisce con la guerra di cui sopra).
E’ un tema delicato, quello del pulire quando si condivide uno spazio, ci si sfancula facile a causa di un argomento così futile. Bisogna pensarci bene, perché sarebbe davvero sciocco se la creazione di un mondo migliore di questo, che siam tutti d’accordo che non ci piace tanto, fallisse a causa di una tazzina.
Ho divagato molto, tutto questo sembra aver poco a che fare con Matteo Seno e il tempo a spirale. Sì, partivo da lì, ma ci ritorno. Per la spirale ci serve di sapere solo che oggi ho pulito molto, ho riflettuto molto e questo mi ha fatto bene, nonostante il fatto che in alcuni momenti la Cenerentola inferocita facesse capolino. Perché sono tante le volte nella vita in cui si ripresentano situazioni simili.
Quando Mary Poppins non litiga con Cenerentola nella mia testa, mi arrivano intuizioni belle, su Karate Kid e agli accordi Tolteca. Mi piacciono molto, ne parlo a tutti, si tratta di quattro precetti che racchiudono la saggezza di un popolo quasi contemporaneo dei Maya, i Toltechi appunto, che non so voi, ma io non avevo mai sentito, prima che ne parlasse Lucio, un Hare Krishna conosciuto a Shambhalabamba (se siete curiosi di tutti e quattro gli accordi, li trovate qui). Da quando Lucio me ne ha parlato la prima volta, non mi hanno più lasciata. Cerco di seguirli anche se spesso non ci riesco come vorrei. Uno l’ho già quasi citato ed è ‘non prendere nulla sul personale’. Se il tuo coinquilino lascia le tazze in giro non è perché ce l’ha con te, ma se le pulisce è meglio, perché l’ordine fa bene alla salute, quindi invece di chiamare il fidanzato è meglio parlare direttamente con il coinquilino, con amore, facendogli capire che le incrostazioni di caffè e cicche si lavano difficile ed è molto più semplice usare un posacenere, che, tra l’altro, è proprio lì affianco. Il coinquilino invece di pensare ‘sto stronzo che ieri ha lasciato la luce accesa in bagno tutta la notte, come osa?’ dovrebbe ringraziare per averglielo detto, scusarsi e cercare di cambiare le sue abitudini. Questi Toltechi hanno veramente un sacco di soluzioni.
Ovviamente, prevenire è meglio che curare, per cui, nella Nave, questo spazio e questa vita nuova che stiamo iniziando a creare a casa nostra, stiamo cercando dei metodi per abituarci come gruppo a fare bene le cose in modo equo e condiviso. Marco ne ha proposto uno che si usava al Proyecto Gaia, dove ha passato quasi un mese. Lo chiamavano servicio amoroso e prevede piccoli lavori a rotazione tutti i giorni, che non prendono tanto tempo e sono fattibili, anche perché siamo tutti spesso a casa. Chiaramente cambieremo il nome, che suona troppo hippie per le colline del Monferrato. Vi racconterò come va, ma credo che l’unico modo per vincere sia un altro accordo tolteca. ‘Dai sempre il massimo’. Semplice, efficace, ma non facilissimo da praticare sul serio. Vuol dire concentrarci quando facciamo qualcosa e farlo bene, vuol dire alzarsi, dare l’esempio e saper chiedere aiuto. Usare amore e flessibilità. Contare fino a dieci prima di sbottare. Ma non arginare il danno facendo le cose al posto degli altri in modo sistematico. Era il motto della Fiom negli anni cinquanta, mi ha detto il papone, che diceva che se volevi essere un buon sindacalista, prima di rivendicare, dovevi essere irreprensibile nel tuo lavoro: solo così potevi essere ascoltato sia dai colleghi che dai superiori. Dal Messico a Mirafiori, se non facciamo le cose per bene, in pochi ci prenderanno sul serio. Inoltre si sta bene a fare le cose bene, si vive più leggeri.
Tutto sto popò di roba mi è venuto in mente mentre pulivo. Ma non pensavo che l’avrei scritto, penso sempre tante di quelle cose… Ma ho deciso di scrivere perché una notizia, che qualcuno ha condiviso nella sua home di facebook, mi aveva fatto arrabbiare. Parlava di Jovanotti, accusato di aver detto che per fare esperienze va bene anche fare il volontario. Ci sono due modi di interpretare questa frase, stralciata, come spesso succede, di un’intervento in cui il cantante parlava d’altro e ha avuto la sventurata idea di esprimere un’opinione fraintendibile. Probabilmente un presunto giornalista, per aumentare like e visualizzazioni, ha pensato di dare lui, oggi, in pasto ai media. La frase era una facile occasione, d’altronde in questi tempi di crisi… E il risultato scontato è che molti, senza prendersi la briga di leggere l’articolo hanno speso la loro dose quotidiana di attivismo condividendo indignati, spesso senza neanche prendersi la briga di leggere le parole pronunciate dal cantante.
Per quanto mi riguarda è semplice e banale accusare Jovanotti di essere colpevole di fomentare lo sfruttamento, perché il lavoro va pagato, così poi gli sfruttatori… Come se qualcuno prima di decidere se offrire un lavoro sottopagato si curasse delle opinioni di Jovanotti in merito. E, mentre pulivo, pensavo a quanto è facile farsi un’opinione di questi tempi. Un titolo è sufficiente. Non ci prendiamo neanche la briga di controllare. Non abbiamo tempo di leggere un articolo fino alla fine, ne abbiamo già altri 10 da leggere che c’interessano di più. Tutti aperti, e poi lasciati lì. Magari uno lo finiamo. Mentre dovremmo leggere quel noioso documento dell’Unione Europea… Quindi non leggiamo che per esempio lui parlava di festival musicali in America, dove spesso si scambia volontariato con il biglietto. Che poi magari già lo fanno anche qua, soprattutto negli eventi autoprodotti. Leggendo, riflettendo e non ripetendo frasi dette da altri si possono trovare opinioni condivisibili, per esempio che le occasioni ci sono e che per prenderle dobbiamo rompere gli schemi.
In effetti, ne ho conosciuti anch’io di ragazzi che hanno imparato tantissimo facendo volontariati in giro per il mondo. In America Latina è abbastanza normale se viaggi, perchè di solito ti viene offerto in cambio vitto e alloggio. Io l’ho fatto, non in un festival, ma lo farei, piuttosto che pagare il biglietto. E vi dirò di più. In Yucatan ho pagato per lavorare, in un centro di Permacultura in cui ho imparato un sacco di cose e ho speso comunque molto meno di quello che avrei speso viaggiando in modo convenzionale, o anche solo pagandomi un affitto. Ho anche viaggiato lavorando e ho vissuto all’estero lavorando. Rifarei tutto, ma i volontariati in America Latina hanno fatto di me la persona che sono ora. E lo rifarò se sarà necessario per accedere a conoscenze che non troverei altrove e che possono migliorare la mia vita. Forse a gennaio in Marocco, in un centro di Permacultura, al posto di stare qui a prendere freddo.
Con occhi di ex volontaria posso dire che il volontariato, per come lo intendo io, è caratterizzato dalla scelta, perché non ci guadagni in soldi, ma fai una cosa che ti sta facendo bene. E se così non è, puoi sempre andare via, cercare un lavoro, o continuare la tua vita. Per evitare fraintendimenti, è chiaro che non mi sto riferendo allo stagista non pagato. Che in ogni caso, almeno fino a quando è volontario, può lasciare senza rimorso un posto che non gli piace. Il problema è che le persone spesso non vengono pagate da qualcuno che i soldi ce li avrebbe e li spende in un altro modo, e questo è profondamente ingiusto. Ma esiste anche un mondo fuori dall’Italia e pure dentro all’Italia dove non lavori per soldi, ma allo stesso tempo non sei vittima di sfruttamento, perché non si tratta solo di un lavoro, ma è soprattutto un bel modo di vivere.
E si può vivere così per anni.
E quello che mi viene da dire allo stagista è che se proprio vuole lavorare gratis e non è sicuro che gli piaccia la vita che gli stanno offrendo può anche decidere di mettere i soldi che pagherebbe per l’affitto in un biglietto aereo per un posto in cui potrà imparare ciò che più gli piace, conoscere un paese, tante persone interessanti, magari pure una lingua, e tornare a casa cambiato e felice come una pasqua. E se non può viaggiare, può cercarsi un volontariato qui, che nella hostlist di Workaway in Italia se ne trovano ben 1043. E vorrei aggiungere che, anche se quello che c’è qui non è il massimo, in Italia siamo molto fortunati, abbiamo tendenzialmente una casa, molti vestiti, accessori e cose che non ci servono. Ma soprattutto la maggior parte di noi ha la possibilità di scegliere. Tra lamentarci o cambiare le cose, almeno per quanto riguarda nostra vita. E il nostro peggior nemico non è Renzi, o chi per lui, ma la pigrizia che non ci fa uscire da abitudini che non ci fanno bene.
Per cui ringrazio Lorenzo Cherubini per avermi dato l’occasione di togliermi un paio di sassolini dalla scarpa. E sono grata che ad un sito come Workaway che permette a chi non è ricco di viaggiare imparando, e magari di vivere così per anni. Ringrazio chi l’ha inventato e chi me ne ha parlato. Certo, i volontariati non sono tutti uguali, la realtà è complessa. Per capirci qualcosa, bisogna andare a fondo. Superare la pigrizia che ti fa stare lì seduto a incazzarti per una frase di una persona che non conoscerai mai, a partire da un titolo che è apparso sulla tua home di facebook, che non aggiunge nulla a quello che già sai. E piuttosto, uscire a guardare il tramonto, che almeno è reale.
Ma la spirale? E’ che oggi ho deciso di scrivere l’articolo su Jovanotti, e solo dopo mi sono resa conto che oggi è un mese che siamo partiti per tornare. E che circa tre mesi fa ho scritto un altro articolo che mi ha permesso di rielaborare tante cose importanti, per l’anniversario del viaggio. Dodici mesi. Sei mesi prima ne avevo scritto un altro importante. Mi ero presa il tempo di tirare le somme.
Da quando ho messo piede in Italia avevo accantonato il blog, quasi non mi ricordavo più che ne avevo uno. C’era una Nave da tirar su, amici da sentire, tante cose a cui pensare… Sapevo che sarebbe arrivato il momento di scrivere, ma sentivo che non era ancora il momento. Poi oggi le pulizie, l’incazzatura, decido di scrivere di farci un post. E poi mi è venuto in mente che dovevo raccontare di questa Nave, che è il nuovo centro di Permacultura che sta nascendo nella mia casa e di alcune delle cose che stiamo facendo per tirarla su. Era il momento di invitare i miei amici del blog, che non sono gli stessi che ho sentito da quando son tornata. Ed era un mese. Ma quando ho deciso di scrivere non me n’ero ancora resa conto.
Poi è successa un’altra cosa. Sono stata ad una festa, ad Erli, in un posto bellissimo. C’era un cestino con dei foglietti sull’amore, che era il tema della festa.
Il mio non c’entrava molto con l’amore che mi aspettavo. Diceva: mi concedo il tempo necessario per stare solo e in silenzio lasciando che il sapere guidato proveniente dal profondo emerga. Mi era piaciuto, ma non l’avevo fatto, non sono mai stata sola per più di mezz’ora nelle ultime due settimane. Fino ad oggi, mentre pulivo, quando mi sono venuti tutti questi pensieri. Il foglietto, l’avevo messo sul camino, dove potevo vederlo sempre.
Questo, per me, è la spirale del tempo. La spirale aiuta a cogliere i collegamenti, perché riconosci quello che hai vissuto, ma sai che il presente è un altro giro e questa volta, se vuoi, guidi tu.
Ecco il primo post. Sì, è venuto fuori lungo. E della Nave non ho raccontato un granché, ma c’è la pagina!
Prima di chiudere vi racconto ancora due cose. Arriveranno presto altre storie presenti e passate e piano piano faremo tutte le robine di indiegogo che avevamo promesso. Quello che vi posso dire ora è che stiamo cercando di partire bene, con la nostra nuova vita a casa, che siamo io e Marco, ma che ci sono anche Manu, il nostro fratello più piccolo e la sua ragazza, Charlie e ognuno di noi, ne sta portando dentro altri. E’ una famiglia con una famiglia intorno, insomma. Di persone belle e un po’ pazze, che si stanno conoscendo e che ci stanno piano piano credendo. E stiamo lavorando da quando siamo arrivati per il PDC con Tierra, che ad agosto ci darà una stupenda occasione di imparare proprio tanto divertendoci, oltre che di pensare a quali sono le cose che vogliamo. Se siamo bravi abbastanza ne finanziamo una bella parte con la festa del Solstizio, per permettere di partecipare a chi vuole ma non riesce a pagarlo. Al Solstizio tutti saranno invitati a salire sulla Nave e contribuire alla festa in tutti i modi che vogliono, soprattutto con la loro arte. Raccoglieremo le erbe la mattina, puliremo il bosco, faremo un cerchio di donne, i balli, i giochi con i bimbi e il falò. Ci sarà un palco in cui chi vorrà potrà suonare, cantare, raccontarci delle tradizioni che non sappiamo più, delle navi e dei sogni da realizzare. E ci sarà tanto da mangiare.
La ciurma è composta virtualmente da tutti coloro che vogliono salire a bordo, come Jack, un suonatore-viaggiatore e amico, che vivrà con noi dopo anni tra Christiania e vita in barca, o Alberto, conosciuto tramite questo blog, e con il quale abbiamo avuto l’occasione di intervistare il charanghista migliore del mondo a La Paz. E Franco, che lancia aeroplanini con poesie dalla Mole, che ha insegnato a restaurare a Marco e che sarà il capomastro nella costruzione della nostra nave nel bosco. E Juancho, che arriva a inizio agosto dalla Colombia! E Sebas, si spera, che da tre anni viaggia con la Permacultura. E ci sono molti altri soci, che non hanno una tessera, ma lo sanno nel cuore. Con questi soci vogliamo disegnare e realizzare il nostro sogno collettivo, un pezzettino alla volta.
Noi, intanto, ci portiamo avanti con chi c’è e vi invitiamo a passare alla nostra festa, ma anche prima, se volete!
Vamos la nave, che dobbiamo riprenderci il mondo!