Prima porta. Il sole brucia la nostra pelle, la sabbia scotta sotto i nostri piedi martoriati dalle pietre e dalle spine di cactus, mentre il diavolo ci incita a non fermarci e continuare a danzare. “cosa siete venuti a fare qui??”. Abbiamo già bevuto il primo bicchiere di San Pedro. Qualcuno ha già vomitato. Gli uomini e le donne ballano, s’incrociano, vanno ai quattro lati del cerchio a prendere l’energia della Pachamama. Noi, in mezzo a loro, provati, ma si continua ad andare avanti. I tamburi scandiscono il ritmo della danza.
El camino de la colebra ya no tiene paso atras, adelante, adelante hay que andar.
Verso la fine il dolore comincia a diventare relativo. L’abbiamo superato. Dopo un tempo incalcolabile la musica smette e crolliamo al suolo. La donna che guida il nostro gruppo piange sorridendo, l’abbraccio, piango un po’ anch’io, è un pianto liberatorio, della fatica di essere donna. Il ballo ha reso bene l’idea, si cammina, si va avanti e si deve essere belle allo stesso tempo. E mentre lo facciamo non riusciamo ad evitare di prenderci sempre cura di qualcuno. Di dare amore e vita. Sono tante cose tutte insieme. La leader delle donne mi racconta anche che la figura del diavolo per loro non è negativa, ma è vista come una parte del tutto, con un ruolo molto importante. Il termine diavolo è un frutto del sincretismo, nella tradizione precolombiana si parlava di Haya, che incarna la forza e il potere tanto positivo come negativo della natura, che ha un ruolo di guida e consigliere per la comunità.
Il cammino. Per caso, se così si può dire, siamo arrivati qui. Juan ci ha parlato di un festival indigeno dove c’era il temazcal. Erano settimane che parlavamo di provarlo. Si tratta di una cerimonia tipica di qua, tipo una capanna del sudore. Abbiamo deciso di andare, anche se non ci aspettavamo un viaggio odissea di 10 ore. Da Shambhalabamba siamo partiti in 8, di cui quattro in macchina con Juan. Io, Marco, Korey e Raoul in bus. Nel cammino si sono uniti in quattro amici circensi e tutti insieme abbiamo preso il bus per Loja, dove abbiamo scoperto che la nostra destinazione era a altre tre ore e mezza di bus, cosa che ha scoraggiato uno dei nostri amici che è tornato indietro. Con i sette rimasti alle dieci di sera partivamo per
giungere all’una a Susudel. Il tempo per raggiungere la fattoria che ospitava la cerimonia non mancava, visto che tutto iniziava all’alba. Il problema è che a Susudel c’era solo nebbia. Nebbia e cani che ci abbaiavano. Come camminare in un paesino del Monferrato a novembre… Dopo qualche minuto abbiamo deciso di bussare all’unica casa con una luce accesa. L’uomo in mutande che ci ha aperto la porta ci ha consigliato di cercare un certo Mario, che ci avrebbe potuti accompagnare all’hacienda.
Un chilometro e dopo e grazie ai consigli di un paio di altri abitanti, siamo riusciti a localizzare la casa di Mario e svegliare il suddetto, che non troppo felice, ha acconsentito ad accompagnarci. Mentre saliamo sul suo furgone vediamo una macchina avvicinarsi. Sono gli altri quattro, che stavano vagando persi senza sapere dove andare. E noi che pensavamo che fossero già giunti a destinazione! La macchina di Mario fa strada e un’ora dopo siamo a Zhuracpamba .
Seconda porta. La prima pausa è un momento molto rilassante di parole, emozioni, in cui ci ristoriamo con acqua e chicha, serviti dal diavolo e dai suoi aiutanti. Molti di noi pensano ‘che bello, adesso è finito tutto e ci riposiamo!’. Ma è un’illusione. Le danze sono quattro, fino al calar del sole. Ci distribuiscono altro San Pedro, in forma solida questa volta, disciolto in sciroppo di agave. La danza ricomincia.
Madre te siento bajo mis pies, oigo los latidos de tu corazon, ehi a ehi a ehi a ehi a ehi a eh oh.
L’armonia del gruppo, che era stata raggiunta con fatica alla fine della prima danza si ristabilisce più in fretta. Ci sono più sorrisi e meno fatica. Ognuno pestando il suolo passa attraverso le sue paure, le sue incoerenze, i suoi drammi. Camminando ci si libera, qualcuno vomita per poi tornare al gruppo. Ad un certo punto, però, vedo Raoul che si siede. Sta rompendo le regole, il diavolo ci ha spiegato che se si sta dentro al circolo si deve ballare. Se no si deve uscire. Lui invece è dentro, seduto, vicino ad un signore dall’aria spiritata. Sorride, ma si vede che non sta bene. Non capisco che cosa sia successo, vorrei andare a prenderlo, chiedergli e dirgli di tornare con noi, ma mi rendo conto che non posso. Si devono mantenere l’armonia e l’energia del gruppo. La vedo come una grande prova quella di non cedere, non sedermi, non parlargli, non lasciare ciò che sto facendo. Cerco, almeno di comunicargli con lo sguardo il mio amore e il mio invito a tornare con noi. Alla fine della danza, quando ci risediamo, stremati, al suolo, Raoul grida ‘Noooooo! Por favoooor!’. Fortissimo. I ragazzi si avvicinano, vedo tensione tra lui e Korey, ma resto tra le donne, li raggiungerò più tardi.
L’alba. Quando arriviamo e ancora pensiamo di essere ad un festival, ci stupiamo perché non vediamo quasi nessuno, solo un fuoco, circondato da cani. Andiamo all’interno della cascina ad iscriverci. Il Taita ci dice ‘volete ballare?’, noi, esitanti, acconsentiamo. Ci racconta che stiamo per partecipare ad una cerimonia per il solstizio, che è anche un momento di iniziazione per i giovani della comunità. Il Taita menziona il San Pedro, cactus allucinogeno, medicina, come si dice qui, usato in rituali indigeni. Con il sole appaiono anche gli altri partecipanti e tutti insieme andiamo a vedere il posto dove si svolgerà il Kapak Raymi, la danza della nuova vita, dedicata alla formazione dei nuovi leader della comunità.
Il posto è mozzafiato, doppiamente per noi, che siamo arrivati immersi nel buio. Dopo una discesa con qualche albero il paesaggio si apre in un piccolo altipiano con un cerchio di pietre e un albero in mezzo, decorato con un filo giallo con molti fiori di carta. Ogni fiore corrisponde ad una preghiera, ogni filo ne conta 52, una per ogni nazione del pianeta. Di fronte, una valle costellata di cactus, tagliata da un fiume che ci separa da una spettacolare catena montuosa. Ne approfittiamo per fare qualche foto, prima di essere chiamati per il temazkal.
Terza porta. Ristorati dai vassoi di frutta, che ci hanno distribuito durante la pausa, riprendiamo la danza. Ormai le musiche sono famigliari, come lo sono i passi. Il profumo del palo santo che m’infastidiva in passato, ora mi dà energia. Un’energia che cresce, come la connessione tra le persone.
Caminaré en belleza, caminaré en paz. Todo es mi familia. Todo es mi familia. ehi a ehi a ehi a ehi a ehi a eh.
Le parole della canzone mi entrano dentro. Sento che i nostri passi stanno sanando qualcosa di molto più grande di noi, sento la sofferenza di questo pianeta, e la piccolezza della visione occidentale, tremendamente antropocentrica, dove la razionalità, la competitività ci hanno fatto dimenticare chi siamo, da dove veniamo e che tutti siamo uno. Questa cerimonia ci sta riconnettendo. Curando le nostre
ferite, curiamo quelle del pianeta. Scambio sguardi pieni d’amore con coloro che accompagnano questo momento sacro, il diavolo che ci incita e che gestisce l’energia che stiamo sprigionando, i giovani aiutanti, gli instancabili suonatori, le donne, gli uomini. Alzo lo sguardo e vedo un condor, che enorme e maestoso sta volando sopra le nostre teste. Animale sacro nella tradizione Inca, rappresenta il collegamento con l’Hanan Pacha, il mondo spirituale al quale, con il suo volo, porta le preghiere degli uomini. È commuovente vederlo librare sopra di noi.
Il temazkal. Si tratta di una struttura di mattoni e fango, a forma di igloo, aperta da una porta alta meno di un metro. Simboleggia l’utero materno ed è un luogo di purificazione attraverso il sudore e il canto. Un fuoco con rami molto alti sta scaldando le pietre fino a renderle incandescenti per poi inserirle al suo interno. Lo guardo con apprensione mentre rifletto sul fatto che dobbiamo entrarci dentro in cinquanta, che farà caldo e che sarà impossibile uscire prima della fine. Faremo due temazkal, uno di apertura e uno di chiusura della cerimonia. Si entra in costume da bagno, a gattoni, prima le donne, che si mettono nella zona più esterna e più fresca, ma più lontana dall’uscita e poi gli uomini. Dopo cinque minuti siamo tutti dentro Entrano le pietre, si sente odore di erbe, la porta viene chiusa, il taita parla e iniziano i canti. Non fa poi così caldo e i canti tolgono ogni paura. Dura solo una decina di minuti per non toglierci l’energia di cui abbiamo bisogno per danzare. Il secondo, alla fine, sarà più lungo e più caldo, ma le paure sono passate ed è bello essere insieme, al caldo, brindando alla cerimonia appena terminata.
Quarta porta. Siamo ormai all’imbrunire, la fatica inizia a pesare sulle nostre gambe, ma continuiamo a danzare. I piccoli aiutanti del diavolo con i loro secchielli dove brucia il palo santo sono stremati, ma impavidi continuano a mandarci forza. C’è un momento in cui tutti gli anziani Saraguros, o quasi, sono in un angolo che vomitano e stanno male. Immagino che questo sia dovuto alla fatica di conservare le proprie tradizioni e la propria identità in un mondo dominato da altre logiche. Non dev’essere facile. E questo è il momento in cui questo male e la fatica del quotidiano possono uscire, per lasciare spazio al rinnovamento. Continuiamo a danzare e inizia a piovere. I canti ci incitano a continuare..
Fuerza fuerza fuerza guerrero que la tormenta ya está pasando…
Salutiamo la pioggia come una benedizione, non dura molto e quando termina è completamente buio e la danza si chiude.
Questo rituale ha cambiato ognuno di noi, ci ha permesso di riflettere, sentire, amare, condividere e curare ognuno le sue ferite. Ma non è uguale per tutti, Raoul, che non ha partecipato a gran parte della danza ha visto cose completamente diverse, ci dice che il diavolo voleva manipolarci, che è stato minacciato, che lo volevano uccidere. Jeremy ha vissuto qualcosa di simile, ma lui pensava di essere l’eletto. Cerchiamo di raccontargli la nostra di esperienza, ma è difficile comunicare, ci vorranno giorni per riuscire a capirci. Raccontando pochi giorni fa ad un amico con molta esperienza in rituali e medicina sacra mi ha detto che questi sono i tipici tranelli che ci tende il nostro ego come difesa, lui è passato per questo, ha vissuto le stesse cose e con il tempo le ha superate. Di certo, per tutti è stata un’esperienza intensa ed indimenticabile. Per me è stato un passo in più per una riconnessione con me stessa e con la natura che mi fa sentire una grande responsabilità. Di portare a casa questi insegnamenti, questa visione per far star meglio le persone che amo e la vita in questo pianeta. Ancora non so ancora bene come farò, ma le risposte arriveranno presto…