Eccoci di ritorno dopo questo momento di pausa-giungla, seguito da pausa post-giungla a Mancora, tra sole, amici e amore. Facciamo qualche passo indietro nel nostro viaggio per condividere con voi i nostri giorni al lago Titicaca e il nostro ingresso in Perù.
Abbiamo abbandonato La Paz e il Carretero con una certa malinconia, ancora inconsapevoli che molte delle persone incontrate in quei giorni le avremmo ritrovate lungo la strada, popolata da una grande comunità itinerante che passa il tempo a perdersi e re-incontrarsi per caso in piazze, parchi, spiagge e ostelli sgangherati. La malinconia era accompagnata dalla curiosità e da quel brivido da partenza, che se presenta ogni volta che riprendi il cammino. E la destinazione era carica di sogno e aspettative. Il lago Titicaca, il più alto del mondo con i suoi 4000 metri. E quando ci stavamo avvicinando a Copacabana, la destinazione, già si aprivano all’orizzonte i profili delle colline terrazzate alla maniera incaica, lambite da un’acqua celeste e sovrastate da nuvole bellissime, così vicine. Siamo scesi dal van e siamo saliti su una barchetta a Tiquina e già i pensieri del vissuto fino a quel momento si allontanavano e si profilava una nuova avventura.
Arrivati a Copacabana abbiamo seguito le indicazioni di Juan, che ci aveva parlato di un altro ostello stile Carretero; la Mariela, che costava la bellezza di 15 bolivianos per notte: un euro e mezzo. Quando siamo entrati abbiamo capito che l’atmosfera non sarebbe cambiata, seduti per terra c’erano una ragazza che annodava braccialetti, vicino ad un ragazzo che suonava un charango. Abbiamo lasciato le nostre cose e siamo andati a vedere il lago, vicino al quale c’erano dei bar con terrazza, da dove si poteva apprezzare il tramonto sorseggiando birra gelata. Ci siamo uniti a questo bivacco e siamo tornati all’ostello.
Il giorno dopo abbiamo scoperto che se al Carretero i giocolieri dominavano numericamente, da Mariela la maggior parte erano suonatori. Al pomeriggio mi sono unita ad un gruppo composto da un’argentina che suonava la chitarra, con un altro colombiano chitarra-munito, che provavano canzoni insieme ad un Bob Marley argentino, una cilena e un altri due argentini. Stavano provando perchè la sera avrebbero suonato tutti insieme in un pub, il repertorio era un misto tra musica argentina, latinoamericana e internazionale. Io un po’ ascoltavo e un po’ cantavo con loro e dopo poco sono stata nominata cantante e inclusa nel gruppo. Alle otto ci siamo diretti verso il pub, che era quasi vuoto e che abbiamo iniziato con uno show chiaramente improvvisato, in cui io svolgevo una funzione più che altro decorativa, accompagnata da Maxi, uno dei ragazzi, che interpretava le canzoni, vestito da mimo. Alla fine, con Marco, ci è scappato un Bella Ciao, inevitabile quando ci sono un italiano e una chitarra nella stessa stanza. Dopo il concerto, ci siamo diretti tutti insieme in un boliche, dove abbiamo terminato la serata ballando e ridendo.
Quel pomeriggio e quella notte è nato un legame che avrebbe segnato il nostro viaggio: con Majo, la suonatrice di chitarra e Maxi, il mimo, cugini di Mar de Plata, che viaggiano insieme. Che dire? È stato amore a prima vista e da quel momento ci siamo separati solo quando necessario, per poi reincontrarci. Sono diventati famiglia, da tre che eravamo con Tomas, siamo diventati cinque.
Il giorno dopo avevamo in programma di andare a visitare la Isla del Sol, meta obbligata quando si visita il Titicaca. Così siamo andati. Majo e Maxi ci avrebbero raggiunti il giorno dopo. Dopo un’ora e mezza di viaggio in un piccolo traghetto, riprendendo le forze dalla notte precedente, siamo arrivati al lato Sud dell’isola. L’idea era arrivare a nord prima di notte. Ma, ci siamo persi tra le strade di quest’isola, tutta terrazzata, piena di asini e maialini, che scorrazzavano liberi. Quando incontravamo gli abitanti dell’isola, chiedevamo dove fosse il nord, ma circa due ore di cammino con 10 chili di zaino sulle spalle, ci siamo ritrovati di fronte ad un cartello che diceva ‘benvenuti al sud della isla del sol’. Sconfitti abbiamo deciso di passare là la notte e cercare il nord il giorno dopo. Con successo, abbiamo percorso un cammino incantevole e un po’ faticoso, tra terrazze, golfi, e rovine Inka e siamo giunti ad una piccola spiaggia, di un villaggio in cui partivano i traghetti per Copacabana.
Vista l’estensione dell’isola io ero rassegnata all’idea che Majo e Maxi non li avremmo incontrati, così abbiamo deciso di aspettare le cinque e tornare indietro. Ma, alle 3 li abbiamo visti scendere da una delle barche, con due cilene, un signore di Mar de Plata y mucha buena onda. Impossibile tornare a Copacabana a quel punto. Siamo rimasti con loro, abbiamo piantato la loro tenda in spiaggia, fatto un po’ di rasta a Marco, bevuto birra, acceso un fuoco, scoperto che non si poteva accendere il fuoco, bevuto boca rica, un Rum da 20 bolivianos, che non perdona e dormito in 5 in tenda in modalità tetris.
Il giorno dopo ci siamo separati, promettendoci di ritrovarci ad Arequipa e il giorno dopo abbiamo preso la strada per il Perù, destinazione Puno. L’attesa del bus sotto il sole cocente, il camminare carichi come muli seguendo l’addetto che pareva non sapere dove fosse il bus e il tragitto hanno aumentato la nostra voglia di lasciare la Bolivia.
Il Perù, ovvero la zona del terminal di Puno ci è sembrato molto brutto all’inizio, ma la disponibilità delle persone ci ha subito colpiti. Al terminal, un signore ci ha accolti chiedendoci se cercavamo un ostello e proponendoci il suo, per 15 soles (circa 4 euro) con wifi, camera con bagno e colazione. E in più ci ha offerto di pagare il taxi. Lusso sfrenato, insomma.
Il giorno seguente siamo andati a vedere las islas flotantes, isole galleggianti dove vive ciò che resta della popolazione degli Uros. È stato bello e triste, vedere come l’accoglienza turistica è l’unica forma di sostentamento per queste persone, che montano un vero e proprio show per i turisti, molto artificiale e in cui ogni cosa aveva un costo aggiuntivo, il tragitto in barca fino all’isola principale e le bambine che cantano canzoni in tutte le lingue. Un’ora e mezza è stata più che sufficiente per fare qualche foto e allontanarci.
Dopo un’altra notte in ostello riprendevamo il cammino. Destinazione Arequipa.