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I trasporti, paura e delirio in Bolivia

Potremmo parlare per ore dei trasporti in Bolivia, che ci hanno riservato emozioni forti.

Iniziando dai lati positivi, non si può omettere il dato economico: con 20 bolivianos, ovvero poco più di due euro, si possono fare tre ore di viaggio e anche per tratte più lunghe non si superano i dieci euro. E per i bus in città, i biglietti oscillano tra uno e tre bolivianos!

Alcune cose, però, possono lasciare perplesso il viaggiatore medio, come ad esempio il fatto che in un terminal di bus ci sono un sacco di compagnie diverse che offrono esattamente lo stesso servizio: stesse destinazioni, stessi prezzi, stessi orari. Quindi il metodo per accaparrarsi l’attenzione dell’aspirante viaggatore è urlare a squarciagola la destinazione ‘oruroruroruroooo’, ‘potosì, potosì, potosììì’ e così via. Altra peculiarità è che oltre al biglietto bisogna pagare l’ingresso alla zona bus. Una volta accaparrato il biglietto, pagato l’ingresso al terminal, inizia la sfida vera e propria, dove la perplessità si trasforma in panico e frustrazione, ovvero la ricerca disperata proprio bus, come è successo a noi nel viaggio tra Sucre e Cochabamba…

Ci danno i biglietti e ci dicono l’uscita, dove ci presentiamo e ci troviamo di fronte al caos più totale: cholitas con panni pieni di mercanzia che si spostano da un lato all’altro, bambini, mila bambini che corrono in ogni lato, famiglie intere in transumanza. Tutti devono passare, tutti hanno fretta.

A fatica, ci dirigiamo verso il numero indicato sul biglietto e un signore ci dice che no, non è il nostro bus, ne dobbiamo aspettare un altro, che arriverà poco più in là. Andiamo dove dice, c’è un bus spento e un altro signore che ci dice che no, non è il nostro, dobbiamo andare da un’altra parte. Ci andiamo ma no, pare che dobbiamo andare dov’eravamo prima. L’ora della nostra partenza si avvicina e ogni spostamento viene intralciato da questa fiumana di gente, che come noi, probabilmente cerca il suo pullman. Se si allarga lo sguardo si vedono file di autobus che escono ed entrano creando ingorghi. Arriva la ragazza che ci ha fatto il biglietto, la luce in fondo al tunnel. Ci indica il bus (era quello spento di prima).

Prima di salire però dobbiamo caricare gli zaini. Aspettiamo, perchè l’addetto non arriva (nel frattempo il bus ha acceso il motore). Siamo nel lato dove si sale, ma una ragazza ci dice che stanno caricando dall’altro lato, dove in effetti dei ragazzi stanno caricando strumenti musicali e c’è l’addetto che parla concitatamente con uno di loro tenendo in mano un portellone, che si è staccato. Noi chiediamo di caricare gli zaini, ma non ci risponde scocciato in un idioma incomprensibile, qualcosa che assomiglia molto a ‘me ne lavo le mani dei vostri fottuti zaini, ho altri problemi adesso’. Torna la ragazza, la nostra salvatrice, che dice all’addetto che sì, deve caricare anche i nostri zaini. Lui tenta una ribellione (!) ma alla fine si piega al suo volere. E li carica dove stavamo aspettando all’inizio. E partiamo! Il bus è popolato da famiglie con bambini in ogni dove. Io sto dal lato corridoio, ma Marco, che è al lato finestrino mi dice che lo strapiombo è notevole, non c’è l’ombra di un guardrail, ma in compenso si possono ammirare molte lapidi!

La zona autista è divisa dalla zona passeggeri da una porta con la maniglia rotta. Per attirare la sua attenzione bisogna bussare forte. Come fa una signora che a metà viaggio comunica all’autista che “quieremos ir al bano”. Il bus si ferma. È notte e siamo in mezzo alle montagne, vedo alberi piegati dal vento. Io e Marco siamo probabilmente gli unici a non scendere dal bus, che si svuota e si riempie nel giro di pochi minuti. Dubito che ci fosse un bagno vero e proprio, ma la natura ha fatto il suo dovere.

All’arrivo a Cochabamba diversi gruppi bussano per chiedere di scendere in svariati punti della città. Cosa inimmaginabile in Argentina o in Cile. Poi ad un certo punto si spegne il motore e io penso che che visto che è notte fonda l’autista sia così gentile da lasciarci dormire nel bus fino alla mattina. E invece no, era l’ingorgo pre-terminal. Una volta giunti a destinazione, siamo invitati a scendere senza troppe cerimonie.

Sono le quattro e mezza di mattina, ma qui non si direbbe. Il terminal brulica di gente. Venditori di caffè con carrellino, famiglie che dormono sotto grandi coperte e i tipi delle compagnie che urlano le destinazioni dei loro autobus. E fuori venditori di formaggio, schede telefoniche, pane, mais e addirittura capre. Ci fermiamo un po’ e arrivano i nostri compagni di viaggio, che erano sul bus dopo, con i quali improvvisiamo uno spettacolo di giocoleria che frutta ben 25 bolivianos!

A Copacabana invece il terminal non esiste, abbiamo comprato i biglietti per Puno e ci hanno detto di presentarci nell’ufficio mezz’ora prima della partenza, noi obbedienti e carichi come muli l’abbiamo fatto e abbiamo iniziato un’attesa sotto il sole durata fino a quando un signore ci ha chiamati e ci ha detto di seguirlo, per una salita infinita, dove continuavamo a incontrare pullman, ma nessuno sembrava essere il nostro. Nel frattempo io camminavo con due zaini, una borsa e un charango che continuavano a cadermi da tutte le parti. Arriviamo in cima e non c’è nessun pullman. Il signore telefona all’autista indicando le nostre coordinate. Il pullman giungerà circa 20 minuti dopo.

Una volta saliti sul mezzo di trasporto in questione, ci si confronta con la guida boliviana. La caratteristica numero uno è il disprezzo per il codice della strada. Tutto è relativo, a parte l’uso del clacson, jolly che serve per comunicare con qualsiasi altro mezzo o essere vivente che si incontri lungo il cammino. Nel viaggio per Coroico, in cui si scende da La Paz per una strada in mezzo alle montagne con strapiombi interessanti, in un furgoncino da 9, io ho pensato di morire. Il limite era tra i 30 e 50 all’ora, vista la pendenza, e c’era divieto di sorpasso. Il furgoncino andava almeno ai 90 e sorpassava TUTTI. Camion, macchine, prima, dopo e durante le curve. Al ritorno, di notte, in più, il furgoncino in questione aveva un fantastico sottofondo di pop-religioso, una sorta di duo Gigi D’Alessio-Tatangelo che cantavano canzoni tipo ‘tu sei la mia luce, il mio unico conforto…”. L’unico modo per trovare conforto è stato dormire. Ci siamo svegliati vivi e infreddoliti a La Paz.

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