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Cabo Polonio, la bufera e altro

Cabo Polonio era un posto che aspettavamo di visitare dal nostro ingresso in questo continente. Io in realtà già da qualche mese prima della partenza, quando avevo letto un articolo che parlava di questo luogo incontaminato, in una penisola, da un lato oceano e dall’altro parco naturale con sette dune di sabbia che cambiano posizione a seconda del vento, leoni marini e un centinaio di abitanti che vivono in piccole casette di legno, senza elettricità.

A Montevideo la reazione tipica quando annunciavamo che ci saremmo andati era: ‘te vas al Cabo? Qué lindo!! Es mi lugar favorito en Uruguay!’

Questo, ovviamente, non ha fatto che aumentare le nostre aspettative.

Qualche giorno prima della partenza abbiamo guardato il meteo. Due pagine diverse: una dava pioggia e disperazione e la seconda sole con qualche nuvola qua e là. Abbiamo deciso di credere alla seconda e venerdì mattina siamo partiti. A Montevideo i giorni prima aveva fatto un po’ freschetto, ma niente di terribile. Quando abbiamo preso il bus il cielo era un po’ grigio, ma noi abbiamo deciso che ad est, dove andavamo, il tempo sarebbe stato migliore. O comunque non peggiore.

A circa mezz’ora da Cabo ha iniziato a piovere. Scesi dal pullman ci hanno accolti vento e un po’ di pioggerellina. Siamo saliti sul camion che attraversando selva e spiaggia porta al villaggio e una volta arrivati abbiamo capito che non esisteva un altro microclima, ma che anzi, se possibile, faceva ancora più freddo. Alla discesa dal camion abbiamo incontrato una ragazza polacca, Natalia, che lavora in un ostello da due settimane.

Quando il nostro primo tentativo di passeggiata è stato interrotto da pioggia torrenziale e vento che schiaffeggia, abbiamo deciso di andare a trovare la nostra nuova amica. Con cui abbiamo passato le 8 ore successive, oltre che con uno svizzero somigliante a Gollum che a volte ne imitava la vocina, a uno svizzero-uruguaiano-artigiano e a due abitanti storici del Cabo, Alfredo, proprietario di un altro ostello e a un tipo detto Punkie, che parlava solo per assurdi.

All’una di mattina abbiamo deciso che era ora di rincasare. Dettaglio non da poco, di notte a Cabo è buio. Non tutte le case lo sono, visto che alcune ricavano elettricità da sole e vento. Ma quella sera sì. Pioggia, vento, buio, due italiani e un gatto che ha cominciato a seguirci alla ricerca del rancho della Lucia, che avevamo affittato. Le scene ricordano molto ‘The Blair Witch Project’, mancavano solo i feticci appesi. L’unico posto che riconoscevamo ogni volta era l’ostello, dove alla terza volta abbiamo deciso di tornare, chiedendo delucidazioni su come rincasare. La gentilissima Natalia, vedendoci fradici e imbranati, ci ha offerto di rimanere nella sua stanza e noi abbiamo accettato.

Il giorno dopo abbiamo avuto diritto a ben due ore di quasi sole! Durante le quali abbiamo passeggiato, visto i leoni marini (anche se in realtà proprio mentre ci andavamo ha ricominciato a piovere, ma poi ha smesso), siamo saliti su una duna e abbiamo fotografato flora e fauna. Poi si è alzato il vento e siamo tornati al nostro ostello preferito. 

Dopo cena si è sparsa la voce che il bar (boliche) del villaggio avrebbe aperto, a partire da mezzanotte. Io però, complice il freddo polare e l’idea romantica di me stessa scrivente nel bel mezzo della natura selvaggia, ho deciso che sarei rimasta a casa a scrivere un po’ e ho invitato Marco ad andare se voleva.

Così mi prima di andare mi ha accompagnata in questa casa di legno senza elettricità dove ho passato la notte più angosciante degli ultimi anni. Per un po’ la carica del PC è durata, non ho scritto nulla di utile, ma almeno c’erano musica e luce. Poi la carica è finita. Ed è rimasta la luce della candela, che poi ho spento per evitare incendi in caso di sonno, e il fischiare del vento, che filtrava tra le assi facendo sbattere il tetto di lamiera. E il freddo. E l’ansia, corroborata dal fatto che, visto che la porta si chiudeva dall’interno, avrei dovuto aprire a Marco al suo ritorno. Non so quante volte mi è parso di sentirlo arrivare. È tornato alle 5 e 20, e ha deciso di non chiamarmi, nè di bussare ma di puntare la torcia verso la porta. Voleva trovare un modo per aprire senza svegliarmi. Io però ero sveglia (e prossima all’infarto) e dopo aver accertato la sua identità gli ho aperto. Pare che lui abbia passato una gran nottata parlando con el Condor, uno dei fondatori del Cabo, fantastico personaggio.

Il giorno dopo ci ha svegliati la pioggia che batteva sul tetto. Stile tambours du bronx. Siamo ancora andati a guardare le onde che si infrangevano sugli scogli e siamo ripartiti alla volta di Montevideo. Nonostante il freddo, la pioggia siamo contenti di essere stati al Cabo e lo consigliamo. Ecco, magari, meglio con sole che con la bufera.

2 thoughts on “Cabo Polonio, la bufera e altro”

  1. ” meglio con sole che con la bufera”… Tu scherzi vero? Non è solo bello così, è fantastico. Quando andai sul promontorio più a nord della Scozia, Cape Wrath e venni come voi flagellato da pioggia e vento fui felice ma soprattutto assaporai l’idea di essere stato in un posto unico. Ma te lo immagini Cabo Polonio col sole caldo di Rimini? Le zanzare, il sudore e magari un venditore di Krapfen? Io no di certo. E ora, come dicono gli inglesi: make my day e dimmi nome e cantante o autore della canzone in sottofondo al video: è bellissima come bellissimo è il video

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