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Buenos Aires – Puerto Madryn, che il viaggio abbia inizio

Apriamo gli occhi a casa di Marco, il couchsurfer trapezista. È Pasqua, abbiamo un appuntamento su Skype con i parenti e poi dobbiamo andare a Retiro, dove ci aspetta il bus che in venti ore ci porterà a Puerto Madryn.

Dallo schermo ci salutano immagini sfuocate che ci dicono che ci seguono e ci chiedono dove andremo. Parliamo, salutiamo, raccogliamo le nostre cose. Constatiamo ancora una volta che abbiamo troppi bagagli, allora ne eliminiamo uno, una borsa piena di cose inutili e di viveri. Li doniamo al nostro ospite, che ci accompagna alla fermata del collectivo. Il primo non riusciamo a prenderlo, non siamo abbastanza lesti. Il secondo sì e il viaggio è meno terribile del previsto, considerando che ci muoviamo con uno zaino enorme sulle spalle, uno zaino medio davanti e una borsa a testa.

Arriviamo a Retiro in una mezzora. Quasi due ore ci separano dalla partenza. Che io spendo in parte girando, procacciando cibo economico e acqua. Il resto è noia e ansia perché il nostro bus non compare, nè fisicamente, nè sul tabellone delle partenze. Poi ovviamente, arriva, in ritardo, ma neanche tanto.

Prendiamo posto nel coche-cama dove il mio obiettivo è scrivere almeno un paio di articoli. Marco cade in coma. Io scrivo e guardo il panorama uniforme, fatto di pianure, arbusti e lagune.

All’ingresso un gentile signore ci aveva detto che la cena era inclusa. Ma alle 10 ancora nulla si muove. Ci fermiamo alle 11, a Bahia Blanca e il gentile signore ci incita a scendere, che abbiamo 40 minuti per mangiare. Noi scendiamo, lasciando sul bus tutta la nostra roba, prendendo con noi solo la borsa. Al punto ristoro un altro signore ci avvicina: “Hola chicos! È la prima volta che viaggiate in collettivo?” “No!” dico io che non voglio passare per l’inesperta totale, mentre mi chiedo quale regola non scritta del mondo dei trasporti argentini abbiamo infranto “siamo andati a Montevideo e ritorno!” “Beh! dovete fare attenzione con le cose tecnologiche” ci dice il signore “che qua rubano! Ora il bus è andato a fare benzina e a pulire, questo è il momento in cui fanno sparire le cose, che poi non saltano più fuori!”. “Ed è già partito, non si può andare a prendere niente?” “Eh sì”. “E allora che ce lo sta dicendo a fare, per farci passare una mezz’ora d’inferno, caro signore?” avrei voluto aggiungere, invece abbiamo ringraziato sorridendo e ci siamo presi male compostamente, dandoci degli stupidi dei 30 minuti successivi. Io già mi vedevo a scrivere su papiri arrotolati dentro bottiglie i prossimi post. All’arrivo taglio la coda e mi catapulto a controllare, constatando che non manca nulla, per fortuna.

Puerto Madryn ci è piaciuta subito: tranquillità, sole tiepido, aria fresca, cielo blu, macchine che non tentano di ucciderti… Dopo un breve tragitto in taxi, Rodrigo, il receptionist dell’ostello ci ha accolti con caffè e torte fatte in casa e ci ha spiegato che in giornata saremmo potuti andare a Punta Ninfas a vedere gli elefanti marini. Prima abbiamo fatto un breve giro fino alla spiaggia e al molo, dove abbiamo incontrato dei pescatori di pesca a strascico e un pinguino solitario, di cui mi sono perdutamente innamorata.


(il video rendeva molto di più con la colonna sonora, ocean di Lou Reed, che youtube ci ha fatto togliere mannaggia..)

Alle 2 Juan la guida ci aspettava sulla 4×4 accesa, mentre noi, in ritardo correvamo in stanza a prendere le ultime cose, io insultando Marco, a cui imputavo (a ragione) la causa del ritardo. Inutile era tutta quell’ansia, Juan non aveva nessuna fretta e come unico obiettivo di farci godere la giornata. Intrattenendoci con aneddoti sul suo lavoro, ha guidato per due ore in una strada tanto spettacolare quanto il punto di arrivo. È sterrata, si perde all’orizzonte ed è percorribile solo in fuori strada. Ai lati la steppa patagonica, ovvero pianura con qualche arbusto, dove trotterellano pecore che assomigliano a quella del piccolo principe, tutte batuffolose, bivaccano guanachi, che sono come dei lama, ma un po’ meno tozzi, dei simili struzzi che si chiamano ñandú, armadilli e lepri patagoniche, che in realtà sembrano canguri più che lepri.

All’arrivo, una scogliera e sotto una colonia di elefanti marini, che riposano nella baia. Dopo una discesa, piuttosto ripida, siamo arrivati praticamente nella colonia. Le enormi foche se ne stanno spaparanzate al sole, ogni tanto si buttano la sabbia addosso, si grattano, starnutiscono e fanno il bagno. Juan ci ha raccontato che sono animali molto interessanti, sono gli unici mammiferi non cetacei in grado di immergersi fino a 1.500 metri di profondità per cercare cibo. Inoltre le madri quando allattano non mangiano nulla per un mese. Il piccolo cresce e loro invece dimagriscono tantissimo.

Dopo un’oretta di contemplazione, in cui abbiamo anche intravisto una pinna di un’orca alla ricerca di cibo, siamo risaliti e dopo aver bevuto un mate siamo tornati verso l’ostello.

Questo è stato il nostro primo giorno in Patagonia, che ricorderemo, io credo, come l’inizio del viaggio quello vero.

(abbiamo un sacco di foto che vorremmo condividere con voi, lo faremo appena la connessione ce lo permetterà, promesso).

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